Il primo documento notarile che menziona ufficialmente il nome Chianti per indicare il vino prodotto nell’omonima zona situata nella Regione Toscana, a cavallo fra le province di Siena e Firenze, risale al 1398. Nei secoli successivi la sua notorietà, anche al di fuori dei confini nazionali, cresce a tal punto da rendere via via più stringente l’esigenza di fissare regole e controlli per la commercializzazione.Ed è così che il 24 settembre1716 il Granduca di Toscana Cosimo III de’ Medici emana il bando con cui vengono fissati formalmente i confini per la produzione del vino Chianti, oggi Chianti Classico, andando a creare di fatto una delle prime denominazioni d’origine dell’era moderna. L’editto stabilisce una vera e propria mappatura geolocalizzata, molto simile a quelle che troviamo descritte nei disciplinari delle DOCG e DOC di oggi: vengono menzionate alcune località ben conosciute dagli amanti del Chianti Classico e allo stesso tempo sono indicati vincoli precisi, che non permettono di usare il nome Chianti per scambiare vini prodotti fuori dalla regione delimitata.
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Se l’editto del 1716 rappresenta una pietra miliare per l’identità geografica del Chianti Classico, quella vitivinicola è ancora in divenire. Nonostante l’abbondanza di documenti, non conosciamo con esattezza quali varietà fossero all’epoca utilizzate e in che modo. Sappiamo però che, a partire dalla seconda metà del ‘700, si intensificano sperimentazioni e ricerche su vitigni e vini, grazie anche agli studi della celebre Accademia dei Georgofili, fondata a Firenze il 4 giugno 1753.
Un percorso simbolicamente compiuto nel 1872, anno a cui risale una lettera indirizzata al professore Cesare Studiati dell’Università di Pisa dal Barone Bettino Ricasoli, secondo Presidente del Consiglio dell’Italia Unita nel 1861. È la missiva che contiene quella passata alla storia come la cosiddetta “ricetta” del Chianti (Classico). Dopo aver a lungo testato varie opzioni produttive nella sua tenuta di Brolio, il “Barone di Ferro” conclude che i migliori risultati si ottengono con un uvaggio composto in maggioranza da Sangiovese, più una quota di Canaiolo. Infine un tocco di Malvasia Bianca, da utilizzare però soltanto sui vini di pronta beva, non destinati all’invecchiamento.
La formula prende rapidamente piede sul territorio, contribuendo a rafforzarne la riconoscibilità stilistica e commerciale.
L’epidemia di fillossera si diffonde in Italia.
Nella seconda metà dell’800 la viticoltura europea è letteralmente devastata da una vera e propria “pandemia vegetale”, che in poco più di mezzo secolo distrugge oltre la metà dei vigneti. A causarla è la diffusione della fillossera (Daktulosphaira vitifoliae), un insetto originario del Nordamerica che attacca le radici delle viti europee, facendole morire in breve tempo.
Il parassita viene individuato per la prima volta in Europa nel 1863 a Londra, presso le serre di Hammersmith, mentre la sua presenza è registrata nel Sud-Ovest della Francia nel 1868. Per l’Italia l’anno zero è il 1879, quando viene accertato un primo focolaio in Lombardia: di lì a poco si propaga ovunque, isole comprese. In Toscana la prima rilevazione certa risale al 1888 e nel 1931, a distanza di quasi cinquant’anni, la fillossera è ancora presente in 89 province (sulle 92 di allora).
La produzione di vino inesorabilmente crolla, in alcune zone sparirà per sempre. La strage dei vigneti prosegue inarrestabile, almeno fino a quando non si scopre in Francia la possibilità di innestare la parte aerea delle viti europee con l’apparato radicale dei ceppi americani, immuni dall’aggressione. Servirà tuttavia molto tempo per una piena ripresa del comparto.
All’inizio del XX secolo il nome Chianti è così famoso da diventare di fatto sinonimo di vino toscano e italiano nel mondo. La richiesta è talmente elevata che la produzione proveniente dall’area storica, quella delimitata nel 1716 dall’editto di Cosimo III de’ Medici, non basta a soddisfarla integralmente. Ciò spinge un numero crescente di aziende regionali, e non solo, a commercializzare vini con la menzione “prodotto all’uso del Chianti”, nonostante siano realizzati con uve e mosti che non provengono dalla zona originale.
L’esigenza stringente di proteggere la propria specifica identità incoraggia quindi 33 viticoltori del territorio a mettersi insieme, per dare vita alla prima associazione di produttori vitivinicoli fondata in Italia. È il 14 maggio 1924 e nasce a Radda il Consorzio per la difesa del Vino Tipico del Chianti e della sua Marca di Origine, denominato dal 1968 Consorzio Vino Chianti Classico.
I fondatori si riconoscono fin da subito in un’icona a dir poco radicata nella memoria collettiva della comunità: è il leggendario Gallo Nero, storico simbolo dell’antica Lega Militare del Chianti. Un’immagine che diviene in brevissimo tempo il marchio per antonomasia dei vini del distretto, rappresentandone al meglio fierezza e blasone sui mercati nazionali ed internazionali.
Il neonato Consorzio si trova ad affrontare una lunga serie di problematiche legate alla difesa dell’autenticità e dell’origine dei vini prodotti nel territorio circoscritto dal bando di Cosimo III. La questione esplode definitivamente nel 1932, quando viene approvato un Decreto Ministeriale che delimita l’area di produzione del vino Chianti, interpretandola come “menzione enologica” e allargandola a gran parte della Toscana.La fiera determinazione delle aziende associate che si riconoscono nel simbolo del Gallo Nero permette tuttavia di ottenere un importante contrappeso. Viene infatti riconosciuto uno specifico status per i vini del territorio originario, quello compreso fra le province di Firenze e Siena indicato nell’editto del 1716. Ciò consente di distinguere i vini prodotti dalla zona storica rispetto a quelli provenienti da altri distretti: debutta ufficialmente la menzione “Chianti Classico”, che da allora tutela in via esclusiva i vini prodotti con uve coltivate secondo parametri di qualità all’interno dei confini geografici del Chianti.
La battaglia per la salvaguardia dei vini del Chianti Classico è solo una delle numerose sfide fronteggiate dal Consorzio per buona parte del Novecento. Dapprima la fase più critica legata all’epidemia di fillossera, poi lo scoppio della Seconda guerra mondiale, che coinvolge direttamente le campagne del Chianti nell’estate del 1944.
Senza dimenticare i tanti fattori che trasformano rapidamente il tessuto sociale negli anni ’50: il boom economico, i flussi migratori dalle aree rurali verso le grandi città industriali, il progressivo spopolamento delle campagne, l’abolizione della mezzadria, che per diversi secoli era stata centrale nel sistema agricolo della Toscana e del Chianti Classico.
E come se non bastasse, l’inverno del 1956 è funestato da una terribile gelata – iniziata il 1° febbraio e proseguita per settimane – che in molte regioni del Centro Italia devasta le tipiche coltivazioni mediterranee come l’ulivo e la vite. Per molti versi il momento più difficile, ma anche quello da cui il distretto riparte per una nuova straordinaria finestra di crescita: un po’ come l’ora più buia, che precede di qualche attimo il sorgere di un’alba radiosa.
Alle questioni di ordine generale che caratterizzano il Secondo dopoguerra se ne aggiungono altre più specifiche legate al comparto vitivinicolo. Nonostante i tanti cambiamenti in corso, in questa fase il vino in Italia ha ancora una funzione più alimentare che edonistica. Ciò comporta anche una forte segmentazione produttiva e commerciale: da una parte zone che puntano su grandi quantità vendute a basso prezzo, dall’altra distretti che per ragioni orografiche, geo-climatiche e agricole si identificano soprattutto con vini di pregio ad alto valore aggiunto.
È precisamente il caso del Chianti Classico, che vede accrescere ancora il suo prestigio sui mercati anche grazie all’istituzione della Denominazione di Origine Controllata (DOC) nel 1967. Un riconoscimento che dà ulteriore impulso allo sviluppo del comprensorio, creando i presupposti per la sua attuale configurazione: si amplia la piattaforma viticola e ampelografica, aumenta il numero delle aziende produttrici, alle cantine storiche del territorio si affiancano numerosi progetti innovativi.
Realtà anche molto diverse tra loro per dimensioni, collocazioni geografiche, ispirazioni stilistiche, che cooperano all’interno del Consorzio Vino Chianti Classico – così ridenominato nel 1968 – nel comune obiettivo di illuminare al meglio attraverso i propri vini la vocazione di un territorio unico al mondo.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 20 ottobre 1984 entra in vigore il nuovo disciplinare approvato per la Denominazione d’Origine Controllata e Garantita (DOCG). La “promozione” da DOC a DOCG introduce ulteriori vincoli produttivi, molti dei quali già adottati dalle aziende del Gallo Nero, oltre che una significativa rimodulazione della base ampelografica.
Viene incrementata la percentuale minima e massima utilizzabile di Sangiovese (da 50-75% a 75-90%), così come si modifica la piattaforma delle varietà complementari: Canaiolo dal 5 al 10%, Trebbiano e Malvasia dal 2 al 5% (in precedenza dal 10 al 30%) e altri vitigni a bacca rossa “raccomandati o autorizzati” fino al 10%. Di questi fanno parte anche gli internazionali come Cabernet e Merlot, che entrano dunque per la prima volta ufficialmente nell’uvaggio del Chianti Classico, là dove l’originario disciplinare della DOC indicava per i complementari una quota massima del 5%, con preferenza per il Colorino.
Sul finire del Novecento si disegna una vera e proprio “età dell’oro” per le aziende e i vini del Gallo Nero. Il momento che fa da spartiacque simbolico in questa finestra temporale è senza dubbio il 1996, ovvero l’anno in cui la menzione “Chianti Classico” è riconosciuta come denominazione autonoma.
Dopo decenni di battaglie, viene ufficialmente sancito per legge che il Chianti Classico non è una Sottozona del Chianti, bensì l’area originaria più antica tutelata da una DOCG indipendente. Ciò permette al Consorzio fondato nel 1924 di agire come organismo rappresentativo di tutte le realtà che operano nella denominazione e di proporre in autonomia modifiche relative ai protocolli di produzione.
Tra i cambiamenti più importanti introdotti dal nuovo disciplinare c’è quello che prevede la possibilità di rivendicare come Chianti Classico vini prodotti con uve Sangiovese al 100%. Un’opzione fino ad allora non consentita, dato che il Sangiovese doveva essere utilizzato obbligatoriamente in blend con altre varietà, autoctone e/o internazionali.
Il 2005 è un altro anno chiave nella storia collettiva del Chianti Classico. Il 14 maggio si riuniscono le due strutture associative originatesi nel 1987 per effetto della separazione fra le funzioni generate in seguito al Decreto Ministeriale del 13 marzo 1982: quelle di tutela-vigilanza affidate al Consorzio Vino Chianti Classico e quelle di promozione-valorizzazione al Consorzio del Gallo Nero (ridenominato Consorzio del Marchio Storico – Chianti Classico nel 1992).
La fusione determina una serie di novità, la più importante delle quali riguarda l’adozione del Gallo Nero come marchio ufficiale dell’intera denominazione e non più solo dei viticoltori facenti parte del Consorzio del Gallo Nero. Da quel momento in poi il simbolo contrassegna tutti i vini rivendicati attraverso la DOCG, comparendo su ogni bottiglia etichettata come Chianti Classico.La 2005 è anche l’ultima vendemmia che permette l’utilizzo dei vitigni a bacca bianca nell’uvaggio del Chianti Classico. Il Trebbiano e la Malvasia restano comunque protagoniste nella composizione del blend con cui si produce una delle tipologie più affascinanti e caratterizzate della rosa territoriale: il Vin Santo del Chianti Classico.
Risale al 14 settembre 2011 il Decreto Ministeriale che riconosce piena rappresentatività al Consorzio Vino Chianti Classico: è il primo Consorzio vitivinicolo d’Italia ad ottenere l’incarico erga omnes che gli permette di svolgere tutte le funzioni relative alle denominazioni di competenza (Chianti Classico e Vin Santo del Chianti Classico).
E si arriva così al 2014, quando viene approvata la modifica del disciplinare di produzione che istituisce la Gran Selezione. Per la prima volta nella legislazione vitivinicola italiana viene introdotta una nuova tipologia che si pone al vertice della piramide qualitativa del Gallo Nero, affiancandosi ai Chianti Classico Annata e Riserva. Essa identifica vini realizzati obbligatoriamente con uve di pertinenza aziendale (vigne in conduzione diretta, di proprietà o in affitto), commercializzati dopo non meno di 30 mesi di maturazione in cantina.
Le tappe più recenti nell’avventura collettiva del Chianti Classico segnalano un ulteriore impegno mirante alla piena valorizzazione della sua spettacolare ricchezza territoriale. La data da ricordare in questa prospettiva è senza dubbio quella del 16 giugno 2021, quando l’Assemblea dei Soci del Consorzio delibera l’adozione delle Unità Geografiche Aggiuntive (UGA).
Si tratta di aree produttive più specifiche delimitate ufficialmente all’interno di una Denominazione di Origine, che possono corrispondere a comuni, frazioni o altre zone amministrativamente riconosciute. Per la DOCG Chianti Classico al momento ne sono state individuate undici, in questa fase menzionabili esclusivamente da vini rivendicati attraverso la tipologia Gran Selezione. In ordine alfabetico: Castellina, Castelnuovo Berardenga, Gaiole, Greve, Lamole, Montefioralle, Panzano, Radda, San Casciano, San Donato in Poggio, Vagliagli.
È il coronamento di un percorso eccezionale e al tempo stesso un nuovo stimolante punto di partenza. Un altro capitolo di una storia tutta da scrivere, diario di bordo nel meraviglioso viaggio alla scoperta dell’identità plurale del Chianti Classico e dei suoi inconfondibili vini.
A un secolo dalla sua fondazione, il Consorzio Vino Chianti Classico è trasversalmente riconosciuto come una delle più importanti strutture associative del mondo, oltre che come punto di riferimento indiscusso del sistema agricolo ed economico del Gallo Nero.
Tiene insieme 482 soci (di cui 345 imbottigliatori), che rappresentano oltre il 96% delle aziende operanti sul territorio. Un’area di oltre 70.000 ettari, circa il 60% del quale ricoperto da boschi (45.000 ettari), là dove la superficie vitata complessiva si aggira intorno ai 10.000 ettari, circa 7.000 dei quali idonei a produrre DOCG Chianti Classico, quota sovrapponibile a quella delle superficie coltivata a oliveto (poco meno di 6.950 ettari).
La produzione annua del decennio 2013/2022 oscilla tra i 255.000 e i 285.000 ettolitri, corrispondenti a 35-38 milioni di bottiglie commercializzate in oltre 160 Paesi del mondo. Gli Stati Uniti sono stabilmente il primo mercato con il 37% delle vendite, seguito dall’Italia col 19, dal Canada col 10, dal Regno Unito col 7 e dalla Germania col 6%.